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   Quando i mesi e le stagioni avevano un riflesso diretto sull'alimentazione non solo in aderenza ai cicli produttivi della campagna ma anche in quanto in ogni stagione per lo più la terra forniva spontaneamente erbe, bacche, fiori che arricchivano e integravano la dieta quotidiana, le donne avevano elaborato un ricettario comune, un patrimonio condiviso di saperi che si potrebbe leggere come un calendario gastronomico.
Questo profondo legame tra vegetazione spontanea e produzione agricola comune a tutte le civiltà crea un ricettario alternativo, diremmo integrativo, che varia naturalmente a seconda delle latitudini, della vegetazione, dei climi e della cultura dei popoli e che si è arricchito e tramandato per secoli fino all'’inizio del secolo scorso, quando il sopravvento della civiltà industriale ha interrotto quasi bruscamente questo filo conduttore sfilacciando saperi antichi che lentamente, nel volgere del 900, hanno finito con lo scomparire dalla pratica diffusa recuperati soltanto sotto forma di folklore o attraverso le nuove scienze quali l’antropologia.
Di queste ricette l’entroterra è ricchissimo. La Valle Scrivia non è da meno. Ne abbiamo raccolte alcune traendole dalla memoria di mamme, nonne e zie a loro volta custodi di una conoscenza che speriamo, anche attraverso questo strumento possa continuare ad essere condivisa e diffusa.
A quanti fossero a conoscenza di altri costumi alimentari simili chiediamo la cortesia di contattarci.
Presso la biblioteca “T. Marangoni” saremo felici di ampliare queste pagine.
Le poche conoscenze raccolte non potevamo che presentarle in veste di calendario. Proprio per sottolinearne il legame profondo con i cicli della natura.

Gennaio

Se la stagione non era stata troppo ingrata a Gennaio c’erano le prime violette. Questi fiori compaiono un po’ come nota di colore e un po’ come vezzo anche nella nostra cucina. Lavate potevano essere aggiunte alle insalate o soprattutto al risotto.

Ecco la ricetta:

Rosolare un trito di cipolla in olio caldo aggiungere il riso e far “crocchiare”. Sfumare con vini bianco, aggiungere il brodo e tirare a cottura. Quando il riso è al dente unire 30 grammi a testa di formaggio montebore (un presidio gastronomico del nostro territorio, dove per nostro si intende anche la val Borbera dove è originario) sciolto precedentemente in un poco di latte a formare una crema densa. Mantecare. Prima di servire aggiungere una manciata di violette per piatto.
Con le violette più tradizionalmente si faceva lo sciroppo. La procedura era la stessa anche per lo sciroppo di amarene o di rose. Immancabili nelle cucine delle nonne.
Si lavano i fiori. 2 hg di petali di violette per un litro di acqua bollente. Disporre le violette in un contenitore, versarvi sopra l’acqua bollente e lasciare in fusone 24 ore a recipiente coperto. Trascorse le 24 ore aprire il recipiente strizzare bene i fiori e pesare il liquido Quindi si aggiunge esattamente lo stesso peso in zucchero. Si mescola e si fa bollire per ¼ d’ora. Lo sciroppo è pronto. Per conservarlo più a lungo si può’ mettere sotto vuoto.

Febbraio

Ancora fiori per questo mese così freddo sui nostri monti. Le prime verdure fresche per così dire dato che l’orto non produce nulla in questi mesi sepolto com’è dalla neve, neve che generalmente non impedisce alle primule (in dialetto “braghe de cuccu”) di far capolino ugualmente.
Con le foglie più tenere delle primule si fanno le frittate.
Questo è anche il mese delle ortiche con le cui punte più tenere si possono fare ripieni e frittate

Marzo

Inizia a nascere il tarassaco (in dialetto “denti de can”) elemento preziosissimo del pre buggiun: consumato crudo tagliato a fettine sottilissime o più spesso lessato ha un gusto amaro ma gradevole.
Ci sono i “Ravuni” la parola italiana raponzoli non ha tutto lo spessore di quella dialettale. Di questa pianta dalla lunga fioritura e permanenza si raccoglievano le foglie tenere dal sapore amaro che si consumavano cotte (anche i ravuni erano una componente fondamentale del “prebuggiun“ una sorta di bollito misto di verdure molto conosciuta nelle nostre valli.
Si potevano cucinare a frittata in unione con altre erbe.
Il radicchio selvatico, “radicette” sono della stessa stagione, analogamente al luppolo con i cui germogli si facevano risotti e frittate.
Più ricercati erano gli asparagi selvatici, soprattutto per il risotto (si aggiungevano a crudo senza cioè alcuna bollitura preventiva) erba dal sapore estremamente delicato accompagnava benissimo le uova ed era particolarmente apprezzata per le frittate. Si usava la pianta senza fiore.

Aprile

La “radicetta” se tenera si mangiava in insalata a crudo tagliandole a fettine sottilissime e condendole con olio aceto almeno un paio d’ore prima..Lessate potevano costituire una componente importante per le paste ripiene (tipo pansotti) o fatte a frittata.
La primavera fa il suo corso e compaiono accanto alle altre erbe già viste e più resistenti al freddo anche piante più tenere e meno amare. Un esempio le “cuighette”. Anche questa da consumersi lessa .
La cucina si colora dei fiori di acacia che lavati debitamente e lasciati sgocciolare mantenendo intatta l’infiorescenza a grappolo venivano passati in pastella (un impasto liquido di farina acqua e sale) e fritti in olio con l’aggiunta di un po’ di sale.
Alternativamente potevano essere aggiunti all'’insalata e non sfigurerebbero nelle nostre macedonie.

Maggio

Fiore principe di questo mese è la rosa. Lo è anche per la cucina. Con le rose si ottenevano marmellate e sciroppi.
Ecco la ricetta della marmellata di rose: si lavano i petali e si fanno asciugare si uniscono 2 parti di mele ad una parte di petali di rosa. Si cuoce e quando le mele sono cotte e un po’ ristrette si pesa il contenuto della pentola e si aggiunge lo zucchero in uguale quantità. Si continua la cottura fino alla consistenza desiderata. E senza smettere di rimescolare perché è facile che il composto si attacchi alla pentola.
La qualità adatta per questo tipo di lavorazione è la rosa muscosa. Non vanno bene le varietà bianche, gialle.
Fiorisce la poligala che ama terreni rocciosi e assolati. Con questo fiore di colore violaceo si ottiene uno sciroppo usato come calmante della tosse. Il procedimento per ottenere lo sciroppo e identico a quello dello sciroppo di rose.

Giugno

Arrivano i primi frutti. Sono le amarene. Con le amarene si faceva uno sciroppo di cui riportiamo la ricetta: 1 Kg di amarene lavate asciugate e schiacciate con le mani in una terrina, dopo aver tolto il picciolo. Si lasciano così a macerare per 24 ore Si mettono poi in un tovagliolo a maglie larghe e si spremono. Si pesa il liquido e si mette a bollire tanto liquido quanto zucchero. Si fa bollire 15 minuti. Si può conservare sotto vuoto.
Amarene sotto zucchero.
Si lavano e si asciugano si toglie il picciolo si mettono in un vasetto asciutto e si riempie di zucchero. Si chiude i barattolo e si espone al sole. Quando lo zucchero con il calore è completamente sciolto le amarene sono pronte.
A seguire come tempi di maturazione ci sono le ciliegie. Queste tradizionalmente venivano messe sotto spirito: Si lavano e si asciugano si taglia il picciolo della lunghezza di un paio di centimetri senza ovviamente strapparlo dal frutto. Si aggiungono alcool e zucchero e si invasa.

Luglio

Lavorare nei campi a luglio anche sulle nostre montagne significava fatica e abbondanti sudate. Per dissetarsi e, diremmo noi oggi, reintegrare parte dei sali minerali era molto in voga mangiare la cosiddetta “erba saia” in italiano “erba salata”. Se ne masticavano le foglie che sono ricche appunto di sali minerali oltre che di acqua.
Ovviamente in questa stagione l’orto ha già iniziato a produrre i suoi frutti e c’era meno bisogno di integrare la dieta con quanto spontaneamente offriva la natura.
Per questo motivo salteremo i mesi estivi che pure vedono la presenza ancora di molte delle erbe e piante di cui abbiamo già parlato per i mesi precedenti.

Ometteremo invece ogni riferimento alle castagne e ai funghi, vera ricchezza dei mesi autunnali. Questi costituivano, infatti, non una integrazione ma una parte sostanziale della alimentazione e della ricchezza economica delle nostre valli (va ricordato che tante tasse si pagavano in castagne secche).
La cultura della castagna è stata ampiamente studiata e rivalutata nel corso degli ultimi trent’anni e non è questa la sede dunque per trattarne.
Ricordiamo solo che tale definizione racchiuse per secoli un’intera economia.
Si va dalla coltivazione del castagno come albero da frutto, alimento base per buona parte dei mesi invernali, alla lavorazione delle eccedenze attraverso l’essicazione in apposite strutture in dialetto “aberghi” e più familiarmente in italiano seccherecci.
Non secondario era lo sfruttamento intensivo del bosco per il commercio di legname sia pregiato, particolarmente richiesto nel primo novecento dalle numerose concerie del fondovalle in quanto ricco di tannini, che da ardere.
Del castagno veniva utilizzato tutto dalle foglie secche utilizzate come lettiera per gli animali delle stalle ai “nuoelli” i virgulti che nascevano in calce ai tronchi e che una volta tagliati spellati e spaccati costituivano la materia prima per la realizzazione di ceste “ corbe” le “borse” ecologiche dei nostri nonni versatili quanto indispensabili per trasportare i frutti del raccolto (patate, fagioli …) o lo smaltimento del letame.
In questi mesi vanno a maturazione anche le zucche spugna. Meritano una particolare citazione proprio in quanto la loro coltivazione e il loro uso si è ormai perduto.
Coltivate infatti più per uso “igienico” che alimentare queste cucurbitacee di forma allungata, colore verde scuro lunghe fino a mezzo metro venivano raccolte una volta maturate e lasciate seccare appese alla stufa.
Una volta secche si sbucciano. La polpa ormai non c’e’ più al suo posto resta una sorta di spugnosa nervatura che viene battuta per liberarla dai i semi.
Si mette a bagno in acqua e candeggina per una notte. Tale procedimento serve unicamente a sbiancare questa spugna dell’orto che non ha nulla da invidiare per morbidezza e confort a quelle più note di mare.

Cinzia Maria Raviola

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